Pagina:Poemetti italiani, vol. VI.djvu/70

Sciorre il mio legno; e co’ precetti miei
Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
   Già i valetti gentili udîr lo squillo
Del vicino metal, cui da lontano
Scosse tua man col propagato moto;
E accorser pronti a spalancar gli opposti
Schermi a la luce; e rigidi osservaro
Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sí ti appoggia
Alli origlieri i quai, lenti gradando
All’omero ti fan molle sostegno.
Poi coll’indice destro, lieve lieve
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
E de’ labbri formando un picciol arco,
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Oh se te in sí gentile atto mirasse
Il duro Capitan qualor tra l’armi,
Sgangherando le labbra, innalza un grido
Lacerator di ben costrutti orecchi,
Onde a le squadre vari moti impone;
Se te mirasse allor, certo vergogna
Avría di sé piú che Minerva il giorno
Che, di flauto sonando, al fonte scorse
Il turpe aspetto de le guance enfiate.
Ma già il ben pettinato entrar di nuovo