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Il giglio, e ’l fior del mito, e ’l gelsomino:
E che terren convenga, e con qual culto
Si produca il popon tanto soave,
Che passa di sapore ogn’altro frutto,
Nè tacerei molti altri erbosi pomi,
Come è il cucumer torto, che l’Etruria
Chiama mellone, e pare un serpe d’erba;
Nè ’l citriuol, ch’è sì pallido, e scabro.
E direi come col gonfiato ventre
L’idropica cucurbita s’ingrossi,
E quanti altri sapor soavi, e grati
Nascano in semi, in barbe, in fiori, e ’n erbe;
Che con le proprie man lavora, e pinge
Di color mille l’ingegnosa terra,
E direi come un albero selvaggio
Tagliato, e fesso, e chiuse ivi le cime
Di domestiche piante, in breve tempo
Si meravigli a riguardar se stesso
Dell’altrui fronde, e fior vestito, e pomi:
Ma serbo questa parte ad altro tempo,
intanto vo cantar l’ingegno, e l’arte
Che ’l Padre onnipotente diede all’Api;
Per esser grato lor, quando seguendo
Il suon canoro, e lo squillar del rame,
Dentr’all’Antro Ditteo gli dieron cibo,
E lo nutriron pargoletto infante
Di vital manna, e rugiadoso umore;