Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/193

     Di molti in bocca il provocar le risa
È facil vanto, come all’aura foglia
Sta lor cervello, o di battocchio a guisa.
     Lascia a ciascun, che riso o pianto scioglia
A suo talento, e al tuo de’ proprj carmi
Suonar fa l’aure, e la Pieria soglia.
     Ma e tu, che spingi altrui, d’intender parmi,
Ond’è, che primo di salir non cure,
E all’ardua cima di volar risparmi?
     Forse pur fora, se men tristi cure
M’avelli intorno, o che le stelle alquanto
State ver me fosser men torbe, e scure,
     Che per l’Italo Ciel di miglior canto
Avrian suonato un dì le nostre muse,
Onde ’l Tanaro mio n’avrebbe or vanto,
     Ed o l’Eroe, che Rodi tenne e chiuse
Al Trace il varco entro l’Ausonie sponde,
Detto avrei, come Febo al cuor m’infuse.
     Oppure a queste di valor feconde
Rive scorto a fondar le mura nostre
Fetonte avrei per le Ligustich’onde.
     Ma vuole il Ciel, ch’in altro campo i’ giostre,
E assai sia, se non atto a salir io,
Almeno il calle altrui n’accenni, e mostre,
     A cui faccia quest’ozi un qualche Dio.