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128 | poemetti allegorico-didattici |
XXXVIII
Deh, che ho detto di tornare in possa!
Non so com ciò adivenir potrebbe;
altro che Cristo ciò far non saprebbe,
4sí m’è da ogne parte la gio’ scossa.
Ai tristo me, come fu mala mossa
quella che ’l mi’ disir per mi’ danno ebbe!
poiché fermo in sé non tornerebbe
8verso di me, se ’npria la buccia e l’ossa
non fossen una cosa sanza carne,
ben consumate con asciutti nerbi;
11ed io, lasso! di ciò tuttor mi peno.
Oimè dolente! s’i’ desin’o ceno,
puot’uom pensar son li miei cibi acerbi
14e contr’a me, purch’io saccia trovarne.
XXXIX
Nessuna cosa tengo sia sí grave,
in veritá, né di sí gran molesta,
come l’attender, che lo cor tempesta
4piú forte che nel mar turbato nave.
E, quanto al mi’ parer, sí mal non have
chi ismarruto truovas’in foresta,
benché veggia venir la notte presta
8e senta fiere cose onde tem’have.
Ché chi attende, certo è maraviglia
come non si smarrisce nel pensero,
11o come non percuote il capo al muro.
Quei ch’è ’n mare o ’n foresta istá sicuro
di tosto esserne ’n capo, o campar vero,
14ma que’ ch’aspetta morendo sbadiglia.