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ogni mio disegno si coloriva dai miei sogni. Nè mi arresterò ai particolari di queste puerili assurdità; narrerò soltanto di quella camera, eternamente maledetta, in cui in un momento d’aberrazione mentale trassi all’ara e sposai, sposai (dopo l’indimenticabile Ligeia!) madamigella Rowena Trevanione di Tremena, dagli occhi azzurri e dalla chioma bionda.

Non vi ha segno, linea, direi, per quanto minuta, dell’architettura o delle decorazioni di quella camera nuziale che, pur adesso, in questo preciso istante, non mi sia lì lì presente agli occhi. E dove aveva di casa il capo l’orgogliosa famiglia della fidanzata, quando, spinta dalla calda sete dell’oro, ebbe permesso ad una figlia sì teneramente cara di varcar la soglia d’un appartamento decorato in così strana e delirante maniera? — Dissi, che mi rammentava per filo e per segno i particolari di questa camera, quantunque ben di spesso la mia infelice memoria smarrisca cose di assai rara importanza; e nondimeno in tanto fantastico lusso nulla vi era per sistema o per armonia che potesse imporsi alle immagini del passato.

La mia camera faceva parte d’un’alta torre dell’abbazia, fortificata come un castello — camera pentagonale e di dimensioni assai ampie. Occupava la intiera parte del pentagono volta a mezzodì un finestrone unico, compreso da un’immensa, superba lastra di cristallo di Venezia, d’un sol pezzo, d’un colore fosco, in modo che i raggi del sole o della luna ond’era attraversata, sprizzavano sugli oggetti interni una luce sinistra. Superiormente alla enorme finestra, distendevasi il pergolato d’una vecchia vite che si avviticchiava lungh’esso i massicci muri della