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potente. Duranti lunghe e lunghe ore, la mia nella sua mano, ella in me versava la ripienezza d’un cuore, di cui la completa devozione tramutavasi in idolatria. E in qual modo aveva io potuto meritare la beatitudine d’ascoltare confessioni siffatte? E come erami io mai renduto colpevole da meritarmi d’essere condannato sì fattamente, che la dilettissima mia fossemi tolta in quella appunto ch’essa inebbriavami delle gioje sue? Non lice a me diffondermi su tale argomento. Dirò solo, solo, che nel completo abbandono, certo più che femminile, di Ligeia ad un amore, ohimè! non ben meritato, concessomi tutt’affatto gratuitamente, spontaneamente, conobbi alfine il principio del suo ardente, del suo selvaggio rammarco di lasciar una vita, che le fuggiva omai rapida, precipite. Quest’ardore disordinato, questa veemenza nel suo disìo della vita, e di null’altro che della vita, — ardore, veemenza e disìo per me impossibili a descriversi, — neanco lingua d’uomo potrà descriverli ora, potrà descriverli mai!
Ed è appunto, a mezzo il corso della notte in cui ella si spense, che, chiamatomi a sè, con grazia soffusa d’autorevolezza celestiale, volle che le recitassi alcuni versi da lei composti pochi giorni prima.
Obbedii. — Or eccovi que’ versi:
«Osservate! — Dopo gli ultimi squallidi, desolati anni, abbiamo alfine una notte gioconda, una vera notte di gala: ecco; — osservate!
«Una schiera d’angeli infinita, dall’ali azzurro-aurate, aperte e tese, di lagrime irroranti, è assisa in gran teatro per vedere un dramma di spe-