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gimento finale ci ha fortunatamente riunito, nondimeno, o caro Monos, ci è ancor voluto un secolo.

Monos. — Non un secolo dèi dire, ma un punto nell’infinito spazio. E io me ne morii giusta, la è cosa incontrastabile, nella grande decrepitezza della Terra. Il cuore schianto per le delire angoscie del disordine e della decadenza generale, soccombetti alla violenta febbre. Dopo varj giorni di sofferenze e molti di delirio, di sogni, di estasi, le cui esteriori espressioni tu stessa scambiavi per segni di vivo dolore, mentre io non soffriva che del dolore dell’impotenza mia a disingannarti, — come ben dicesti, fui preso dopo alcuni dì, da un letargo senza respiro e senza moto, e i miei astanti tennero e dissero che quella era la Morte.

Le parole sono cose vaghe. Il mio stato non privavami del sentimento; non mi pareva molto differente dallo stato quiescente di colui che, avendo dormito lungo e profondo sonno, immobile, smemoriato, disfatto nella rilassatezza dell’ardente solstizio, ritorna grado grado alla coscienza di sè stesso; che vi ritorna o, direi, vi arriva pel solo fatto che il suo sonno ha durato abbastanza, senza essere desto da moto alcuno esteriore.

Io non respirava più. Il polso era immobile; il cuore aveva cessato i suoi battiti. Invero la volizione non era tuttavia scomparsa, ma aveva perduto affatto la propria efficacia; — e i miei sensi gioivano d’un’insolita attività, sebbene la esercitassero di maniera irregolare ed usurpassero reciprocamente a casaccio le loro funzioni. E gusto ed odorato stranamente confondevansi così che erano diventati un senso solo, anormale ed intenso. L’acqua di rosa, di cui tu, sempre tenera e