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za e del frutto proibito, che dà morte, un bel chiaro avviso, che cioè la scienza non era giovevole all’uomo, durante la minorità della sua anima. E cotali uomini, i poeti, vivendo e morendo nel disprezzo degli utilitarj, rozzi pedanti, usurpatori d’un titolo di cui eran degni soltanto i disprezzati, i poeti, ripeto, volsero le loro fantasie e i saggi loro rammarichi a quegli antichi giorni in cui la semplicità dei nostri bisogni era pari all’intensità e vivezza delle nostre gioje; a que’ giorni in cui la parola gajezza era sconosciuta, tanto era solenne e profondo l’accento delle felicità! Giorni santi, augusti e benedetti, in cui gli azzurrini ruscelli scendevano con onde piene tra intatte e verdeggianti colline, correndo baldi a nascondersi lontan lontano nelle solitudini sterminate delle foreste primitive, olezzanti, inviolate.
E nondimeno queste nobili eccezioni all’assurdità generale non fecero che rendere l’assurdità stessa, per opposizione, più forte e pertinace. Ahimè! eravamo proprio caduti nel peggiore di tutti i peggiori nostri giorni: Il grande movimento (tal nomavasi in gergo dell’epoca) procedeva; perturbazione morvida, morale e fisica. L’arte, vo’ anzi dire le arti levaronsi al più alto grado e, non sì tosto insediatesi in lor soglio, avvinsero con catene quell’intelligenza che aveale recale al potere. E l’uomo, incapace a riconoscere la maestà della Natura, cantò scioccamente il peana in occasione de’ suoi conquisti ognor più estesi su gli elementi di questa Natura medesima. In modo che, mentre si pavoneggiava e si teneva per un Dio, una puerile imbecillità lo colse e l’avvinse. Com’era da prevedersi; da che fu tocco dalla malattia, non