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Mi alzai, dissi e disputai su bajúcole, a tutta voce e facendo violentemente mille gesti; — ma il romore saliva, saliva e saliva sempre. — Perchè mai non volevano eglino andarsene? Discorsi il pavimento a gran passi, soffermandomi e pestando, come stizzito dalle osservazioni de’ miei contradditori; — ma il romore continuava a crescere regolarmente, a crescere sempre!
Dio, Dio! che poteva mai fare? Sbuffava, saltava di palo in frasca, giurava, scuoteva la mia scranna, facendola scricchiare sul pavimento. Ma il rumore dominava sempre, e indefinitamente cresceva. Diveniva più forte, — più forte, — sempre più forte! Ma i tre parlavano sempre, sempre motteggiavano, sghignazzavano sempre. Ma come mai poteva egli darsi ch’e’ non udissero nulla? Mio Dio! mio Dio! — No, no! — Eglino udivano, sì! Eglino sospettavano, sì! Sapevano, sì, eglino sapevano, e solo prendevansi giuoco del mio spavento! Lo credetti; lo credo tuttavia. Qualunque cosa sarebbemi stata più sopportabile di questa derisione: no, io non poteva più oltre tollerare gl’ipocriti loro sorrisi; sentiva che bisognava o gridare o morire. — E qui ancora, capite? il romore era più alto; lo sentite? più alto, più alto. Ascoltate: sempre più alto, sempre più alto, sempre più alto! — Scellerati! — sclamai, piantandomi arrogantemente loro d’innanzi — scellerati! Cessate una volta da questa dissimulazione indegna! Sì, vi confesso il fatto: strappate là quelle tavole, là: è là! — È il battito dello spaventoso suo cuore!