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fidenza, recai sedie nella stanza e li pregai di riposarsi alquanto, mentre poi io stesso, nella folle ebbrezza d’un completo trionfo, posi la mia sedia proprio nel sito medesimo in cui aveva nascosto il cadavere della vittima.

Non v’era ombra di dubbio: gli uffiziali mostravansi pienamente soddisfatti, gentilmente soddisfatti. I miei modi aveanli affatto convinti; e, calmo e tranquillo, io era sicuro di me stesso. Sederonsi, e si fecero a parlare di cose famigliari, cui io rispondeva del miglior modo. Ma di lì a un po’ di tempo, m’accorsi che diventava pallido, e cominciai a desiare che se ne andassero. Dolevami il capo e mi pareva che mi cornassero gli orecchi; ma eglino continuavano a stare seduti, e sempre a discorrere. E lo zufolamento si fece più vivo, più persistente, più spiccato: mi studiava di avvivare, di stuzzicare le ciarle per disfarmi di quella sensazione; non riuscii. Si fece più tenace, più distinto, ed assunse un carattere davvero suo proprio, in modo che in fine conobbi che il romore non era un’illusione, non proveniva dalle mie orecchie.

E allora, il confesso, allora mi feci pallidissimo; — eppure continuai a cicalare con maggior disinvoltura, alzando anzi la voce. E il suono cresceva sempre, — sempre; e che poteva mai far io? Era un romore sordo, soffocato, frequente, molto simile a quello che manda un orologio avvolto nel cotone. Io respirava con affanno, ma gli uffiziali non udivano ancor nulla. Discorreva con più calore, con più prestezza, con maggior veemenza: ma il rumore sempre più cresceva, cresceva incessantemente, cresceva sempre.