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sentimento e i ricordi della peste balenavano insistenti nei nostri cranii, torbidi e pesanti a mo’ di nauseabondi vapori.

D’intorno a noi e a noi da presso erano cose di cui non saprei rendermi proprio esatto conto — cose materiali e spirituali, — un’ammosfera greve greve, — una sensazione di affogamento, — una angoscia viva; e, oltre a ciò, quelle strane ed orribili forme d’esistenza che tanto sfiaccano le persone nervose, e le facoltà assopite e gemebonde del povero spirito. E noi, quasi avvolti in plumbea cappa, ci sentivamo come schiacciare da peso enorme. Il quale si diffondeva man mano su le nostre membra, su i mobili della sala, su i bicchieri da cui credevamo sorsare un po’ di lena e di obblío; ed ogni cosa pareva oppressa e vinta da questo pernizievole influsso; tutto, dico, ad eccezione delle sette lampadi di ferro, muti testimoni di quella nostra orgia. Le quali fiamme si allungavano in altrettante esilissime fila di luce e, mantenendosi in tale parvenza, ardevano pallide pallide, biancicanti, immobili: e sulla rotonda tavola d’ebano, intorno la quale sedevamo, trasformata in ispecchio per lo scintillare delle fiamme su quella superficie nerissima, tersissima, ogni commensale contemplava riflessa la propria immagine e lo irrequieto e sinistro sguardo dei suoi compagni.

E nullameno, noi, di quando in quando davamo in qualche sghignazzata, e ci mostravamo gai a nostro modo, gai ad uso isterico; e cantavamo le canzoni di Anacreonte, che non sono che pazzie1;

  1. È detto nell’ironia dell’ebbrezza.

    B. E. M.