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non vi ha nome sulla terra. Imperciocchè erano avvenuti prodigi strani e tristi segni, segni molteplici e moltiformi, dappertutto; e dappertutto, sulla terra e sui mari, la peste aveva ampiamente disteso e scosso le nere sue ali. Tuttavia, i dotti nelle scienze degli astri ben sapevano che i cieli recavano un aspetto di sventura; e, tra gli altri, per me, Greco Oinosse1, era evidente che noi ci appressavamo al ritorno di quei settecento novantaquattro anni in cui, entrando nella costellazione dell’Ariete, il pianeta Giove fa la sua congiunzione con l’anello rosso del terribile Saturno. Lo spirito particolare dei cieli (se non cado in qualche grave abbaglio) non solo manifestava i suoi poteri sul globo materiale della terra, ma ed eziandio sulle anime, sui pensieri e le meditazioni del genere umano.

Una notte, ci trovavamo in sette nei sotterranei d’un vasto e grandioso palazzo della mesta città di Tolemaide, tutti seduti ad una tavola su cui era larga copia di vasi di vin di Chio, dal color di porpora. E, in quella camera, niun altro ingresso che una porta di rame fatta dall’artista Corinno, opera invero rara e per merito di concetto e per isquisitezza d’esecuzione; la quale si chiudeva per di dentro. Larghi e paralleli damaschi neri, aggiugnendo a questa melanconica sala, ci velavano i raggi della luna fiochi, e le stelle lugubro-sanguigne e l’aspetto delle vie deserte; nondimeno il pre-

  1. Il poeta, per rispetto al passato in cui finge di trovarsi all’epoca degli avvenimenti sopra presunti, piglia qui un tal nome, personificazione di Bacco; adatto al quadro ch’egli è per distendere.

    B. E. M.