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potuto felicitarmi meco stesso del successo della mia finzione.
Era omai giunto a quella parte sì conosciuta della storia in cui Etelredo, l’eroe del libro, avendo invan tentato d’entrare amichevolmente nel ritiro di un eremita, credesi in diritto d’introdurvisi per forza. Qui, se ben ricordisi, il narratore si esprime in questo modo:
«Ed Etelredo, ch’era per natura di cuor valoroso, e che lì era eziandio fortissimo, in ragione dell’efficacia generosa del vin tracannato, non ebbe più pazienza di fare parlamento con l’eremita che, a dir vero, mostrava un animo molto dedito all’ostinatezza ed alla malizia; ma, sentendo la pioggia cadere giù grossa sulle proprie spalle, e temendo da uno all’altro istante l’esplosione del temporale, sollevò vigorosamente la sua mazza e con pochi buoni colpi maestri s’aperse presto una via a traverso le tavole della porta, con la sua mano dal guanto di ferro; e, traendola energicamente a sè, la fe’ scricchiolare, rompere e saltare in pezzi, con tale riuscita che il rumore del legno secco e scrosciante destò lo spavento e venne ripercosso da un capo all’altro, della foresta.»
Al finire di questa frase io mi scossi e feci una pausa; poichè m’era sembrato (ma tosto m’accorsi dell’illusione della mia fantasia), m’era sembrato, ripeto, che da una qualche remotissima parte della casa fosse pervenuto al mio orecchio una specie di romore che, stante la sua esatta analogia, sarebbesi potuto tenere per un’eco soffocato, estinto dal romore di scricchiolamento e rottura tanto meravigliosamente descritto dal si-