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spettava. Tennesi molto diffuso nel suo conversare, e spiegossi a modo suo circa il carattere della sua malattia. Era questa, e’ diceva, una malattia di famiglia, una malattia costituzionale; un male a cui disperava di potere trovare rimedio, — una semplice affezione nervosa, — aggiunse subito dopo — della quale senza dubbio presto mi sarò sciolto. Manifestarsi essa con una folla di sensazioni soprannaturali: alcune mentre me le descriveva, m’interessarono e mi confusero; ciò non pertanto inclino pure a credere, il tono ed il modo del suo esporre vi abbiano non poco contribuito. E’ pativa vivamente d’una squisita acuità di sensi; per lui, alimenti solo tollerabili, i più semplici; in fatto di abiti gli erano soltanto possibili certi tessuti; tutti gli odori dei fiori gli davano fastidio e soffocamento; una luce, anche debolissima, non poteva soffrirsi da’ suoi occhi e solo alcuni suoni particolarissimi, vale a dire que’ mandati dagli strumenti a corda, che non gl’ispirassero orrore. Io ben mi avvidi ch’egli era lo schiavo incatenato d’una specie di terrore veramente anormale. Morrò, sclamò egli; sì bisogna che io muoia di questa deplorabile follia. È proprio così così, e non altrimenti, ch’io devo soggiacere al fato mio: nè temo gli avvenimenti futuri in sè, li temo piuttosto nei loro fini. E raccapriccio al pensiero d’un accidente qualsiasi, accidente per lo più volgarissimo, che possa in qualche modo influire sopra quest’insopportabile agitazione dell’anima mia. Non pavento, no, il pericolo per sè stesso, ma nel suo effetto reale, — il terrore. — In cotesto mio stato di spossatezza, — stato compassionevole — ben sento che tosto o tardi verrà il momento in cui la vita e la ragione mi abbandoneranno ad