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guidava il mio cavallo verso le ripide rive di uno stagno nero e lugubre — specchio immane ed immoto — che d’innanzi al solitario edifizio mestamente si distendeva. E lì, con un ribrezzo ancora più acuto di prima, mi posi a contemplare le immagini riflesse e capovolte dei grigiastri giunchi, dei tronchi d’alberi sinistri e de’ finestroni simili a occhi smisurati, senza moto e senza pensiero.

E nondimeno era proprio in sì melanconico palazzo ch’io aveva disegnato di fermarmi per alcune settimane. Roderick Usher, il proprietario, era stato uno dei miei ottimi amici d’infanzia; era però scorso gran tempo dall’ultima volta che ci eravamo veduti; se non che, da poco tempo, erami arrivata da lontana provincia del paese una lettera di lui, la cui forma strana ed urgente non ammetteva altra risposta che l’immediata mia presenza. Quello scritto rivelava le traccie di un’agitazione nervosa. L’autore della lettera mi parlava di una malattia fisico-acuta — d’un’affezione mentale che l’opprimeva, — d’un ardente desiderio di vedermi, essendo io il migliore ed anzi l’unico suo vero amico, — fermissimamente convinto che nel piacere della mia società avrebbe trovato qualche alleviamento a’ suoi mali. Era questo il tono in cui tutte queste cose, ed anzi molte altre ancora, erano esposte, — specie d’espansione d’un cuor supplice e tenero, che troncava ogni esitazione in proposito.

Per la qual cosa immediatamente obbedii a quanto io tuttavia considerava come un invito tutt’affatto singolare.

Sebbene nella nostra infanzia, Usher ed io, fossimo sempre stati gl’intimissimi camerata, in realtà