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fellone, diritto in piedi nel carro sotto i loro occhi, furono d’opinione che quel furfante (pensando a W.) stava certamente per darsi alla fuga (così essi si espressero), e, essendosi comunicata reciprocamente questa loro opinione, bevvero prima un sorso e poi mi stramazzarono col calcio dei loro moschetti.

Non andò guari che arrivammo al luogo destinato. Naturalmente non v’era nulla da dire a mia difesa. L’impiccagione era il mio inevitabile fato. E mi rassegnai con un sentimento mezzo di istupidimento, e mezzo di acrimonia. Senza essere gran che cinico, provai i sentimenti di un cane. Il boia, tuttavia, m’accomodò il laccio al collo: l’assicella cadde.

Mi astengo dal descrivere le mie senzazioni sulla forca; sebbene su questo punto non v’ha dubbio che potrei parlare con conoscenza di causa; e si tratta di un soggetto sul quale nulla che valga è stato detto ancora. In verità, per poter assolvere a un simile assunto, è necessario d’esser stato impiccato. Ogni autore dovrebbe limitarsi al campo della propria esperienza. Così, ad esempio. Marco Antonio compose un trattato sull’ubbriachezza.

Accennerò tuttavia al fatto che io non morii. Il mio corpo fu impiccato, ma io non avevo fiato per esserlo; e non fosse stato il nodo sot-