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424. Quant’ è bedda Maria sutta ddu mantu ì D’ora; na stampa e ’n’áutra d’argentu. Palermi! cu Missina è rnisa? n chianti!, ’Un havi pani, e vinu, né furmentu. E la matina di In Jovi Santa Caiani tri vascelli di furmentu *. Si vota lu parrinu, e dici: Santu! Loclámucci lu Santa Saranientu 2. ( Caliavuturó)*. 1 Ricordo storico, del quale sará detto più innanzi. In una ver- sione di Alimena questi ultimi due versi variano così: Quannu si spingi lu calaci santu, Domi * Patri, Filili e Spiritu Santu. 2 Questo egli altri canti che vanno sotto inn. 425, 429, 430, 432, 433. 437, mi scrive il sig. Pietro Giuffrè di aver uditi a recitare ogni anno in Caltavuturo dai contadini che falciano le biade. Dopo di aver desinato si mettono a lodare il Signore. Colui che raccoglie i mani- poli lasciati dietro dai mietitori, cioè il ligaturi o cugghituri, levan- dosi il berretto ed imponendo ai compagni silenzio, dice: La menti a Delhi, Luclamu e ringraziami* lu Santissimic Saramenlu. E poi soggiunge: ’Na ’ Vimmaria a Santa, Lucili zza^ ca nni cunsirvassi la vista di V occhi ecc. Sullo stesso tono continua il capu-brucchieri, cioè il primo mietitore a destra, a cui seguono gli altri lino al capu- spaia, che è l’ultimo di sinistra. Il nome di spada è ben applicato a codesti lavoratori per la curva che fanno schierandosi in mezzo le biade. Così scrivevo io nella prima edizione di questi canti; ora, in questa seconda, mi richiamo al citato volume di Usi e Costumi, p. 162, nel quale è cennato l’uso dei mietitori e son riportati i Canti della mèsse. Domi— in noMitte.