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STUDIO CRITICO SUI CANTI POPOLARI 91


affettano onestà che non hanno, pudore che allora perdettero quando più che all’essere badarono al parere; e curarono più di serbarsi nubili che d’esser caste. Nè lascia sfuggirsi la provincia e il contado, la gente de’ quali è soprannominata villana perchè non nativa dell’antica capitale; donde l’uso di dire ad ogni provinciale che capiti a Palermo: Calasti! o Quannu calasti? quasi la cerchia dei monti ond’è cinta la città tolga valli e pianure nel regno1; ed il villano è la vittima della satira siciliana, il quale non so a cui non faccia pietà quando n’esce brutto e sanguinante. Se altre satire piacciono, altre ne apprestano i canti pei voltafaccia, pe’ giudici mercatori della giustizia, pei medici, per gl’impostori d’ogni genere, per gli amici d’oggidì, che sono tanti Giuda:

  Ciuri di ciuri!
Tutti l’amici di l'epuca d’ora
Assimigghianu a Giuda tradituri.

E’ ne apprestano altresì per quei mariti che pur di mangiare a due palmenti lascerebbero, come lasciano, in braccia al primo offerente la moglie, con lo assumer cera di dabbenuomini (questi tali canti, sia detto di passaggio, hanno una vivacità ed un lepore che contrasta coi migliori capitoli del Berni):

  L’omini cchiù valenti e valurusi,
Chi pàrinu a la vista malantrini,
Pri campari la mogghi su’ cunfusi,
Si fannu amici cu li so’ vicini;

  1. Colla parola regno il popolo palermitano intende tuttavia la intiera Sicilia; onde la qualificazione di genti o pirsuna di lu regnu, che vale quanto rigniculu, provinciale.