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Nel primo caso essi veggono nella disfatta la loro ruina, nel secondo un pretesto per tornarsene a casa. Solamente dopo una lunga carriera sui campi di battaglia ed una serie non interrotta di vittorie possono formarsi quelle schiere di veterani, che amano la guerra per la guerra, che tutto il loro utile riassumono nell’utile della vittoria, come erano le schiere napoleoniche; ma senza la rivoluzione, e per essa dieci anni di prospera guerra, non sarebbero esistite ne quelle schiere, nè Napoleone, nè le vittorie di cui la Francia incoronasi degnamente. Adunque, la cagione medesima, la nostra temperie, che assicuraci il primato in guerra, è stata quella per cui i moderni eserciti italiani fecero cattiva prova; gli italiani discernono troppo il periglio, per incontrarlo in forza di una virtù negativa, l’ubbidienza. Questa virtù è efficacissima pei popoli del nord, che, dotati di una grande abbondanza di sangue caldo, sono stupidi e coraggiosi, atti ad essere menati come massa inerte contro il cannone, ma, per contro, incapaci di quegli sforzi che richiede la virtù ardita e libera allorchè inspirasi sulle grandi passioni. In tali sforzi gli italiani non hanno pari che i greci; seguono con maggiore impeto, ma minor costanza, i francesi.
Un esercito regio d’italiani guerreggiando per conto di una dinastia e per cagioni che non comprende, sarà il peggiore degli eserciti europei; se poi combatterà per una causa sentita e popolare, sarà invincibile. Senza una passione universalmente sentita, gli italiani non potranno combattere con valore; se poi la passione e l’esaltazione esisteranno, le nostre schiere saranno tanto superiori a quelle degli altri popoli, per quanto lo furono i romani, i quali non vissero sotto clima diverso dal presente, nè ebbero un maggiore numero d’organi sensorii, nè temperie diversa da noi. Essi nella guerra vedevano un utile che noi non veggiamo; questa differenza, e nulla più, passa tra noi e loro.