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liana, dovrebbe mirare alla salvezza del proprio trono, che il reggimento repubblicano, ricco in Italia di splendide tradizioni, minaccerebbe di ruina. Un potere nazionale, per contro, col mandato di sgombrare l’Italia di quanto osta alla sua nazionalità e libertà, dovrebbe in ogni modo impedire che il principato acquistasse credito e potere. L’uno direbbe: meglio io re, e l’Italia schiava, che questa libera ed io esule; l’altro non dovrebbe riconoscere altri limiti che le alpi ed il mare, altro patto che l’assoluta libertà. Ma concediamo che, o sconoscendo ognuno la propria politica, o per valore della nazione, s’accordassero: quale potrebbe essere il patto? Interrogare il paese a guerra vinta, siccome nel 48; nè pare che lo spirito di conciliazione potrebbe spingersi più oltre di quello che lo fu in quell’epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No; l’atto della fusione il ruppe; e così avverrebbe sempre; da’ regi da’ repubblicani, (a chi prima capitasse il destro) sarebbe infranto. Ed è poi da supporsi che un re, eziandio nella certezza di essere eletto, rinunzierebbe al diritto divino, per surrogargli quello del popolo? Dio non può interrogare il popolo sempre; concedere al popolo il diritto di fare un re è, vogliasi o no, concedergli il dritto di disfarlo.

Ma ammettiamo tutto possibile, la colleganza, il patto, la fede al patto. A chi verrebbe affidata la suprema direzione della guerra? Ai generali regii o ai repubblicani? Permetterebbero questi che le loro forze venissero logorate e distrutte dall’indubitata incapacità e dalla dubbia fede di quelli, o affiderebbe il re il proprio esercito a generali d’un partito avverso? Egli è facile in simili momenti gridare concordia, arrestandosi alle fallaci apparenze del caso, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si veggono sorgere gli ostacoli che generano disordini, codardia, illusioni, disfatte.