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spesso, non intendendoli, li travisava. Pensavo, insomma, che le mie idee e i miei sentimenti non potessero capire, se non così ridotti e rimpiccoliti, nel cervellino e nel coricino di lei; e che i miei gusti non si potessero accordare con la sua semplicità.

Ma che! ma che! Non li travisava lei, non li rimpiccoliva lei i miei pensieri e i miei sentimenti. No, no. Così travisati, così rimpiccoliti come le arrivavano dalla bocca di Gengè, mia moglie Dida li stimava sciocchi; anche lei, capite?

E chi dunque li travisava e li rimpiccoliva così? Ma la realtà di Gengè, signori miei! Gengè, quale ella se l’era foggiato, non poteva avere se non di quei pensieri, di quei sentimenti, di quei gusti. Sciocchino ma carino. Ah sì, tanto carino per lei! Lo amava così: carino sciocchino. E lo amava davvero.

Potrei recar tante prove. Basterà quest’una: la prima che mi viene a mente.

Dida, da ragazza, si pettinava in un certo modo che piaceva non soltanto a lei, ma anche a me, moltissimo. Appena sposata, cangiò pettinatura. Per lasciarla fare a suo modo io non le dissi che questa nuova pettinatura non mi piaceva affatto. Quand’ecco, una mattina, m’apparve all’improvviso, in accappatojo, col pettine ancora in mano, acconciata al modo antico e tutt’accesa in volto.

— Gengè! — mi gridò, spalancando l’uscio, mostrandosi e rompendo in una risata.

Io restai ammirato, quasi abbagliato.

— Oh, — esclamai, — finalmente! —