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materna ingenuità, cerca d’approfittare di quel silenzio. Forse crede che lì non sia più città; che gli uomini abbiano disertato quella piazzetta; e tenta di riprendersela, allungando zitta zitta, pian pianino, di tra il selciato, tanti fili d’erba. Nulla è più fresco e tenero di quegli esili timidi fili d’erba di cui verzica in breve tutta la piazzetta. Ma ahimè non durano più d’un mese. È città lì; e non è permesso ai fili d’erba di spuntare. Vengono ogni anno quattro o cinque spazzini; s’accosciano in terra e con certi loro ferruzzi li strappano via.

Io vidi l’altr’anno, lì, due uccellini che, udendo lo stridore di quei ferruzzi sui grigi scabri quadratini del selciato, volavano dalla siepe alla grondaja del convento, di qua alla siepe di nuovo, e scotevano il capino e guardavano di traverso, quasi chiedessero, angosciati, che cosa stéssero a fare quegli uomini là.

— E non lo vedete, uccellini? — io dissi loro. — Non lo vedete che fanno? Fanno la barba a questo vecchio selciato. —

Scapparono via inorriditi quei due uccellini.

Beati loro che hanno le ali e possono scappare! Quant’altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle campagne; e com’è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l’aratro.

Ma forse anch’esse, le bestie, le piante e tutte le cose, hanno poi un senso e un valore per sè, che l’uomo non può intendere, chiuso com’è in quelli che