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consegnargli una lettera su al Collegio degli Oblati, che sorge non lontano dal Palazzo Vescovile, nel punto più alto della città, ed è un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie, ma tutto bianco, arioso e luminoso, dentro. Vi sono accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina vi è così dura, che quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantano al suono dell’organo nella chiesa del Collegio le loro preghiere, a udirle da giù, quelle preghiere accorano come un lamento di carcerati.

A giudicarne dall’aspetto, non pareva che il canonico Sclepis dovesse avere in sè tanta forza di dominio e così dura energia. Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l’aria e la luce dell’altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avessero reso le mani d’una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le pàlpebre più esili d’un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

Appena entrato e informato da Monsignore dei miei scrupoli di coscienza e delle mie intenzioni, si mise a parlare con me in gran fretta, con grande confidenza, battendomi una mano su la spalla e dandomi del tu:

— Bene bene, figliuolo! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio. Il dolore ti salva, figliuolo. Bisogna