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Monsignore, rasserenato, riprese il discorso sugli scrupoli della coscienza, che a lui pareva il più proprio al mio caso, e l’unico a ogni modo da far valere con l’autorità e il prestigio del suo potere spirituale sulle intenzioni e le mene di quei miei nemici.

Potevo fargli intendere che il mio non era propriamente un caso di coscienza com’egli s’immaginava?

Se mi fossi arrischiato a farglielo intendere, sarei d’un tratto diventato pazzo anche ai suoi occhi.

Il Dio che in me voleva riavere il danaro della banca perchè io non fossi più chiamato usurajo, era un Dio nemico di tutte le costruzioni.

Il Dio, invece, a cui ero venuto a ricorrere per ajuto e protezione, era appunto quello che costruiva. Mi avrebbe dato, sì, una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch’esso servisse alla costruzione di almeno una casa a un altro dei più rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la carità.

Monsignore, al termine del nostro colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.

Dovetti rispondergli che volevo questo.

E allora egli sonò un vecchio annerito e insordito campanellino d’argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati, ch’era in anticamera. L’uomo che ci voleva per me.

Conoscevo più di fama che di persona questo prete. Ero andato una volta per incarico di mio padre a