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dere a mia moglie ch’io non ero quello sciocco che lei s’immaginava, in lunghe discussioni che le erano costate una fatica infinita per frenare il dispetto che le cagionava l’ostinazione di quella donna a voler vedere in tanti miei atti o parole una sciocchezza che non c’era o un male che soltanto un animo deliberatamente nemico vi poteva vedere.

Strabiliai. D’un tratto, per quelle confidenze d’Anna Rosa, vidi una Dida così diversa dalla mia e pur così ugualmente vera, che provai — in quel punto, più che mai — tutto l’orrore della mia scoperta. Una Dida che parlava di me come assolutamente non mi sarei mai immaginato ch’ella ne potesse parlare, nemica anche della mia carne. Tutti i ricordi della nostra intimità comune, separati e traditi così indegnamente che, per riconoscerli, dovevo superarne con dispetto il ridicolo che prima non avevo avvertito, riparare una vergogna che prima, in segreto, non m’era parso di dover sentire. Come se a tradimento, dopo avermi indotto confidente a denudarmi, spalancata la porta, m’avesse esposto alla derisione di chiunque avesse voluto entrare a vedermi così nudo e senza riparo. E apprezzamenti sulla mia famiglia e giudizii sulle mie più naturali abitudini, che non mi sarei mai aspettati da lei. Insomma un’altra Dida; una Dida veramente nemica.

Eppure, sono certo certissimo che col suo Gengè ella non fingeva: era col suo Gengè quale poteva essere per lui, perfettamente intera e sincera. Fuori poi della vita che poteva avere con lui, diventava un’altra: