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— E le mie mani, — mi venne d’aggiungere subito, non so perchè, presentandole; con un tal tono di voce che destò all’improvviso in me stesso un brivido, rivedendomi col pensiero in quello stanzino dello scaffale nell’atto di sollevar le mani per rubare a me stesso l’incartamento, dopo avere immaginato là dentro quelle di mio padre, bianche, grasse, piene di anelli e coi peli rossi sul dorso della dita.

— Vengo alla banca, — seguitai, stanco tutt’a un tratto e nauseato, tra il crescente sbalordimento dell’una e dell’altro, — vengo alla banca solo quando mi chiamate a firmare; ma state attenti che non ho neanche bisogno di venirci, io, alla banca, per sapere tutto ciò che vi si fa. —

Guardai di traverso Quantorzo; mi parve pallidissimo. (Ma oh, badiamo, dico sempre quello mio; perchè forse il Quantorzo di Dida, no; che seppure anche a Dida sarà parso che il suo impallidisse, avrà forse creduto per isdegno e non per paura, com’io del mio avrei potuto giurare.) A ogni modo, le mani se le portò subito al petto per davvero; e gli occhi, tanto d’occhi sgranò nel domandarmi:

— Ah, ci tieni dunque le spie? Ah dunque tu diffidi di noi?

— Non diffido, non diffido; non tengo spie, — m’affrettai a rassicurarlo. — Osservo, fuori, gli effetti delle vostre operazioni; e mi basta. Rispondi a me: tu e Firbo, è vero? seguite nel trattare gli affari le norme di mio padre?

— Punto per punto!