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§ 5. Il bel giuoco.


— Un calcio? io? a quella povera bestiolina? —

Ma no! Che io! Gliel’aveva appioppato in campagna un certo ragazzaccio smarrito, per non so che strano sgomento da cui era stato invaso, di tutto e di niente: d’un niente che poteva d’improvviso diventare qualche cosa, che sarebbe toccato allora di vedere a lui solo.

Qua in città, ora, per via, non c’era più questo pericolo. Diamine! Ognuno, bello, dentro l’illusione dell’altro; da poter essere sicuri che tutti gli altri sbagliavano se dicevano di no, che cioè ciascuno non era come l’altro lo vedeva.

E mi veniva di gridarlo a tutti quanti:

— Ma sì! Eh eh! Giochiamo, giochiamo! —

E anche di farne segno a chi stava per caso a guardare dai vetri di qualche finestra. Ma sì! Eh eh! Anche aprendo quella finestra per buttarsi di sotto.

— Bel giuoco! E chi sa poi che graziose sorprese, caro signore, cara signora, se, dopo esservi buttati fuori così d’ogni illusione per voi, poteste ritornare per un momentino, da morti, a vedere nell’illusione degli altri ancora vivi quel mondo in cui vi figuraste di vivere! Eh eh! —