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potessi fingermi e riconoscere per mia oltre questa qua, per esempio, che mia moglie dava, vera e tangibile in me, a quel suo Gengè che le stava davanti e che non ero io; anche se non potevo più dire chi fossi io allora, e di chi e dove, fuori di lui, quell’angoscia atroce che mi soffocava.

E tanto ormai, fisso in questo tormento, m’ero alienato da me stesso, che come un cieco davo il mio corpo in mano agli altri, perchè ciascuno si prendesse di tutti quegli estranei inseparabili che portavo in me quell’uno che ero per lui e, se voleva, lo bastonasse; se voleva, se lo baciasse; o anche andasse a chiuderlo in un manicomio.

— Qua, Gengè. Siedi qua. Qua, così. Guardami bene negli occhi. Come no? Non vuoi guardarmi? —

Ah che tentazione di prenderle il viso tra le mani per costringerla a guardare nell’abisso di due occhi ben altri da quelli da cui voleva essere guardata!

Era lì davanti a me; m’acciuffava con una mano i capelli; mi si metteva a sedere sulle ginocchia; sentivo il peso del suo corpo.

Chi era?

Nessun dubbio in lei ch’io lo sapessi, chi era.

E io avevo intanto orrore dei suoi occhi che mi guardavano ridenti e sicuri; orrore di quelle sue fresche mani che mi toccavano certe ch’io fossi come quei suoi occhi mi vedevano; orrore di tutto quel suo corpo che mi pesava sulle ginocchia, fiducioso nell’abbandono che mi faceva di sè, senza il più lontano sospetto che non si désse realmente a me, quel suo