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— Usurajo! usurajo! —

E ne sorrido. Forse, sì, un po’ pallido. Ma pure con una voluttà che mi tiene sospese le viscere e mi solletica l’ugola e mi fa inghiottire. Solo che, di tanto in tanto, sento il bisogno d’attaccarmi con gli occhi a qualche cosa, e guardo quasi con indolenza smemorata l’architrave della porta di quella catapecchia, per isolarmi un po’ in quella vista, sicuro che a nessuno, in un momento come quello, potrebbe venire in mente d’alzar gli occhi per il piacere d’accertarsi che quello è un malinconico architrave, a cui non importa proprio nulla dei rumori della strada: grigio intonaco scrostato, con qualche sforacchiatura qua e là, che non prova come me il bisogno d’arrossire quasi per un’offesa al pudore per conto d’un vecchio orinale sgomberato con gli altri oggetti dalla catapecchia ed esposto lì alla vista di tutti, su un comodino, in mezzo alla strada.

Ma per poco non mi costò caro questo piacere di alienarmi. Finito lo sgombero forzato, Marco di Dio, uscendo con sua moglie Diamante dalla catapecchia e scorgendomi nel vicolo tra il delegato e le due guardie, non potè tenersi, e mentre stavo a fissar quell’architrave, mi scagliò contro il suo vecchio mazzuolo di sbozzatore. M’avrebbe certo accoppato, se il delegato non fosse stato pronto a tirarmi a sè. Tra le grida e la confusione, le due guardie si lanciarono per trarre in arresto quello sciagurato messo in furore dalla mia vista; ma la folla cresciuta lo proteggeva e stava per rivoltarsi contro me, allorchè un nero omiciattolo, malandato ma d’aspetto feroce, giovine di studio del no-