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Posai una mano su la spalla di Quantorzo e con un’altr’aria, non meno seria, ma gravata d’un’angosciosa stanchezza, soggiunsi:
— T’avverto, caro mio, che non sono mio padre. —
Poi mi voltai a Firbo e, posandogli l’altra mano sulla spalla:
— Voglio che tu gli faccia subito gli atti. Lo sfratto immediato. Il padrone sono io, e comando io. Voglio poi l’elenco delle mie case con gl’incartamenti di ciascuna. Dove sono? —
Parole chiare. Domande precise. Marco di Dio. Lo sfratto. L’elenco delle case. Gl’incartamenti. Ebbene, non mi capivano. Mi guardavano come due insensati. E dovetti ripetere più volte quel che volevo e farmi condurre allo scaffale dove si trovava l’incartamento di quella casa che bisognava al notaro Stampa. Quando fui nello stanzino ov’era quello scaffale, presi per le braccia Firbo e Quantorzo, che mi avevano condotto lì come due automi, e li misi fuori, richiudendo l’uscio alle loro spalle.
Sono sicuro che dietro quell’uscio rimasero ancora un pezzo a guardarsi negli occhi, istupiditi, e che poi uno disse all’altro:
— Dev’essersi impazzito! —