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Me n’ero trattenuto, non già perchè avessi avvertito a tempo che in un luogo come quello la pietà per le seggiole avrebbe fatto strabiliare tutti e rischiavo fors’anche d’apparir cinica: me n’ero trattenuto, avvertendo invece che avrei fatto ridere di me per quel badare a una cosa che certamente sarebbe sembrata stravagante a chi sapeva quanto poco badassi agli affari.

Quel giorno, entrando, trovai i commessi affollati nell’ultimo stanzone, che si squaccheravano di tanto in tanto in risate assistendo a un diverbio tra Stefano Firbo e un certo Turolla, burlato da tutti anche per il modo con cui si vestiva.

Una giacca lunga, diceva quel povero Turolla, a lui così corto, lo avrebbe fatto sembrare più corto. E diceva bene. Ma non s’accorgeva intanto, così tracagnotto e serio serio, con quei mustacchioni da brigadiere, come gli stava ridicola di dietro la giacchettina accorciata, che gli scopriva le natiche sode.

Ora lì lì per piangere, avvilito, congestionato, frustato dalle risate dei colleghi, alzava un braccino e badava a dire a Firbo:

— Oh Dio, come le piglia lei le parole! —

Firbo gli era sopra e gli gridava in faccia, scrollandolo furiosamente per quel braccio levato:

— Ma che conosci? che conosci? tu neanche l’o conosci; eppure ti somiglia! —

Come venni a sapere che si trattava di un tale che aveva chiesto un prestito alla banca, presentato appunto dal Turolla che diceva di conoscerlo per un