Pagina:Pirandello - Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925.djvu/218


da vicino, in casa, benchè non m’aspettassi nè da lei nè dalla casa alcuna rivelazione d’intimità.

Sono entrato in molte case, dacchè ho perduto la mia, e in quasi tutte, aspettando che si presentasse il padrone o la padrona di casa, ho provato uno strano senso di fastidio e di pena insieme, alla vista dei mobili più o meno ricchi, disposti con arte, come in attesa d’una rappresentazione. Questa pena, questo fastidio io li sento più degli altri, forse, perchè m’è rimasto inconsolabile in fondo all’anima il rimpianto della mia casetta all’antica, dove tutto spirava l’intimità dove i mobilucci vecchi, amorosamente curati, invitavano alla schietta confidenza familiare e parevano contenti di serbar le impronte dell’uso che ne avevamo fatto, perchè in quelle impronte, se pure li avevano un po’ logorati, un po’ gualciti, erano i ricordi della vita vissuta con essi, a cui essi avevano partecipato. Ma veramente non riesco a comprendere come non debbano dare, se non proprio pena, fastidio certi mobili coi quali non osiamo prenderci nessuna confidenza, perchè ci sembra stieno lì ad ammonire con la loro rigida gracilità elegante, che la nostra noja, il nostro dolore, la nostra gioja non debbano nè lasciarsi andare, nè smaniare o dibattersi, nè sussultare, ma esser contenuti nelle regole della buona creanza. Case fatte per gli altri, in vista della parte che vogliamo rappresentare in società; case d’apparenza, dove i mobili attorno possono anche farci vergognare, se per caso in un momento ci sorprendiamo in costume o in atteggiamento non confacenti a quest’apparenza e fuori della parte che dobbiamo rappresentare.