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sta pazza fa della mia dignità, davanti alla figlia, davanti alle serve, davanti a tutti, pubblicamente; ed ecco perduto il pudore della propria sciagura!

— Papà! —

Ah, questa volta sì, chiamò davvero la signorina Luisetta.

Cavalena subito si ricompose, si rassettò bene la parrucca sul capo, si raschiò la gola per cangiar voce, e ne trovò una fina fina, carezzevole e sorridente, per rispondere:

— Eccomi, Sesè. —

E accorse, facendomi segno, con un dito, di tacere.

Uscii anch’io, poco dopo, dalla mia stanza per vedere il Nuti. Origliai un po’ dietro l’uscio della stanza. Silenzio. Forse dormiva. Restai un po’ perplesso, guardai l’orologio: era già l’ora di recarmi alla Kosmograph; solo non avrei voluto lasciarlo, tanto più che Polacco mi aveva raccomandato espressamente di condurlo con me. A un tratto, mi parve di sentire come un sospiro forte, d’angoscia. Picchiai all’uscio. Il Nuti, dal letto, rispose:

— Avanti. —

Entrai. La camera era al bujo. M’accostai al letto. Il Nuti disse:

— Credo... credo d’aver la febbre... —

Mi chinai su lui; gli toccai una mano. Scottava.

— Ma sì! — esclamai. — Ha la febbre, e forte. Aspetti. Chiamo il signor Cavalena. Il nostro padrone di casa è medico.

— No, lasci... passerà! — diss’egli. — È lo strapazzo.