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impensatamente quando si vive e non si sa che una macchinetta di nascosto li stia a sorprendere. Chi sa come ci sembrerebbero buffi! Più di tutti, i nostri stessi. Non ci riconosceremmo, in prima; esclameremmo, stupiti, mortificati, offesi: — Ma come? Io, così? io, questo? cammino così? rido così? io, quest’atto? io, questa faccia? — Eh, no, caro, non tu: la tua fretta, la tua voglia di fare questa o quella cosa, la tua impazienza, la tua smania, la tua ira, la tua gioja, il tuo dolore... Come puoi saper tu, che le hai dentro, in qual maniera tutte queste cose si rappresentano fuori! Chi vive, quando vive, non si vede: vive... Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo!

Ah se fosse destinata a questo solamente la mia professione! Al solo intento di presentare agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com’è. Di questa vita, senza requie, che non conclude.


§ 4.


— Signor Gubbio, scusi: voglio dirle una cosa. —

Era già bujo: andavo di fretta sotto i grandi platani del viale. Sapevo che egli — Carlo Ferro — mi veniva dietro, affannato, per sorpassarmi e poi forse volgersi, fingendo di ricordarsi tutt’a un tratto, che aveva da dirmi qualche cosa. Volevo levargli il piacere di questa finzione, e acceleravo sempre più il passo, aspettandomi di mano in mano, che — stanco alla fine — si desse per vinto e mi