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Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo là. — No, caro, grazie: non posso! — Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare.... — Alle undici, la colazione. — Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola.... — Bel tempo, peccato! Ma gli affari.... — Chi passa? Ah, un carro funebre.... Un saluto, di corsa, a chi se n’è andato. — La bottega, la fabbrica, il tribunale....

Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopratutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra facciamo un gesto da ubriachi.

— Svaghiamoci! —

Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicchè dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.

Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno, ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte