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Laudisi.
Naturale, un corno! Non avete nulla da farei
Dina.
Ma no, guarda: metti che tu stia qua, scusa, zìetto, senza la minima voglia di badare a ciò che fanno gli altri attorno a te. — Bene. Vengo io. E qua, proprio su questo tavolinetto che ti sta davanti, ti colloco, con la massima serietà.... anzi no, con la faccia di quel signore lì, patibolare — che so, mettiamo, un pajo di scarpe della cuoca....
Laudisi.
Ma che c’entra!
Dina.
Aspetta.... — che posso dire? un ferro da stiro.... che so, il mestolo.... il tuo pennello della barba....
— Posso far colpa a te della curiosità che con tutte queste stramberie son venuta io stessa a suscitarti?
Laudisi.
Carina! — Hai ingegno tu; ma parli con me,
sai? — Tu vieni a posarmi qua sul tavolino le cose
più strambe e disparate, appunto per suscitar la
mia curiosità; e certo — poiché l’hai fatto apposta
— non puoi farmi colpa se ti domando: — " Ma perchè, cara, le scarpe della cuoca qui sopra?,, — Dovresti ora dimostrarmi che questo signor Ponza
— villano e mascalzone, come lo chiama tuo padre — sia venuto ad allogarci, ugualmente apposta, qua accanto, la suocera!
Dina.
Non l’avrà fatto apposta, va bene! Ma non puoi negare che questo signore è venuto a stabilire in paese, sotto gli occhi di tutti, un cumulo di cose talmente strambe da suscitar la curiosità naturalissima di tutta la gente. — Scusami. — Arriva. — Prende a pigione un quartierino all’ultimo piano di quel casone tetro, là, all’uscita del paese, su gli orti.... — L’hai veduto? Dico, di dentro?