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l’ironia comica nella poesia cavalleresca | 93 |
rigido e quasi meccanico. È là dove il poeta dimostra d’essersi proposto a freddo il rispetto delle condizioni serie dell’arte, là cioè dove non le rispetta più istintivamente, ma per intenzione preconcetta. Citerò per esempio le personificazioni di Melissa e di Logistilla.
Ma là dove il poeta rispetta istintivamente le condizioni serie dell’arte, cessa l’ironia? riesce il poeta a perder la coscienza della irrealità della sua creazione? e come s’immedesima egli con la sua materia?
Questo è il punto da chiarire e che richiede l’analisi più sottile. È qui il segreto dello stile dell’Ariosto.
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Nella lontananza del tempo e dello spazio, il poeta vede innanzi a sè un mondo meraviglioso che in parte la leggenda, in parte le capricciose invenzioni dei cantori han costruito attorno a Carlo Magno. Egli vede l’Imperatore non già come quella cosa scura del Pulci, che passeggia per la mastra sala impaurito dei formidabili eserciti dei Saracini o, più spesso, delle minacciate vendette dei Paladini per i tradimenti di Gano, che lo mena per il naso a sua posta: nè lo vede come il Bojardo, Carlone rimbambito, che s’indugia a parlar con Angelica, affocato in volto e con gli occhi lustri, poichè si sente toccar l’ugola anche lui. Egli comprende che è da farsa o da teatrino di marionette un imperatore così fatto. Rida il volgo, ridano i fanciulli dei fantocci. Il riso è facile quando con burlesca grossolanità si sconci una figura o si faccia comunque ridicola violenza alla realtà. Questo non può voler l’Ariosto; e questo lo pone già di gran lunga sopra ai suoi predecessori, non solo, ma tanto alto forse, che — quantunque egli poi si sforzi o di dissennarsi o di tirar su fino alla sua altezza quella materia — essa, per ciò che ha in sè di irriducibile ormai, gli resta in parte di troppo