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l’ironia comica nella poesia cavalleresca 85

un lavoro comico — osserva giustamente il De Sanctis — non è esentato dalle condizioni serie dell’arte».

Ebbene, queste condizioni serie dell’arte rispetta più di tutti l’Ariosto, meno di tutti il Pulci, ma non per difetto d’arte, come ci vorrebbe far credere il De Sanctis, bensì — ripetiamo — per lo scopo ch’egli si prefisse.

Chi fa una parodia o una caricatura è certamente animato da un intento o satirico o semplicemente burlesco: la satira o la burla consistono in un’alterazione ridicola del modello, e non sono perciò commisurabili se non in relazione con le qualità di questo e segnatamente con quelle che spiccano di più e che già rappresentano nel modello stesso una esagerazione. Chi fa una parodia o una caricatura insiste su queste qualità spiccate; dà loro maggior rilievo; esagera un’esagerazione. Per far questo è inevitabile che si sforzino i mezzi espressivi, si àlteri stranamente, goffamente o anche grottescamente la linea, la voce o, comunque, l’espressione; si faccia in somma violenza all’arte e alle condizioni serie di essa. Si lavora su un vizio o su un difetto d’arte o di natura, e il lavoro deve consistere nell’esagerarlo, perchè se ne rida. Ne risulta inevitabilmente un mostro; qualcosa che, a considerarla in sè e per sè, non può avere alcuna verità, nè, dunque, alcuna bellezza; per intenderne la verità e però la bellezza, bisogna esaminarla in relazione col modello. Si esce così dal campo della fantasia pura. Per ridere di quel vizio o di quel difetto o per deriderli, dobbiamo anche scherzare con lo strumento dell’arte; esser coscienti del nostro gioco, che può esser crudele, che può anche non aver intenzioni maligne o averne anche di serie, come le aveva ad esempio Aristofane nelle sue caricature.

Se dunque il Pulci nel suo lavoro comico vien meno alle condizioni serie dell’arte, non è per insufficienza, ripeto. Lo stesso non si può dire per il Bojardo. La