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84 | parte prima |
Mi sono intrattenuto così a lungo sul Morgante perchè fra i tre nostri maggiori poemi cavallereschi è quello in cui certamente ha più campo l'ironia: l’ironia che — secondo l’espressione dello Schlegel — riduce la materia a una perpetua parodia e consiste nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della irrealità della propria creazione.
L’intendimento dei due altri poeti, il Bojardo e l’Ariosto, è più serio. Ma bisogna bene intendersi su questa maggior serietà. Il Pulci è poeta popolare, nel senso che non solleva per nulla dal popolo la materia che tratta, anzi ve la tiene per riderne parodiandola, in una corte borghese come quella di Lorenzo, che della parodia, come ho detto, ha il gusto. Il Bojardo è poeta cortegiano, nel senso che ha, per usare le parole stesse del Rajna «una profonda simpatia per i costumi e i sentimenti cavallereschi, cioè per l’amore, la gentilezza, il valore, la cortesia» e se «non ha ritegno a scherzare col soggetto, nè ha rimorso di esporre alla derisione i suoi personaggi, gli è che egli intende a celebrare la prodezza, la cortesia e l’amore, non già Orlando e Ferraguto»; cortegiano, dunque, nel senso che scrive per dar buon tempo e gradito sollazzo a una corte che, vivendo in ozii agiati ed eleganti, appassionandosi ai casi di Ginevra e di Isotta, alle avventure dei cavalieri erranti, non avrebbe potuto far buon viso ai paladini di Francia, se questi le fossero venuti innanzi senza amore e senza cortesia. L’Ariosto, se per condizioni di vita, rispetto alla casa d’Este, è — in un altro senso — poeta cortegiano anche lui; rispetto però alla materia che prende a trattare, è sopra tutto poeta d'arte.
Abbiamo veduto che nella stessa Francia già da tempo il mondo epico e cavalleresco aveva perduto ogni serietà. Come avrebbero potuto i poeti italiani trattar seriamente ciò che già da tempo era cessato di esser serio? L’ironia comica era inevitabile. Ma «chi fa