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74 parte prima

naparte che gli proponeva la traduzione in romanesco del vangelo di San Matteo. Ma questa irriverenza che nasce dalla lingua buffona della plebe non denota punto per sè stessa irreligiosità. E ricorderò anche l’aneddoto che si racconta in Sicilia d’un altro grande poeta dialettale, notissimo nell’isola e ignoto affatto nel continente, Domenico Tempio, il quale chiamato un giorno dal vescovo di Catania e paternamente esortato a non più cantare cose oscene e a dare invece al popolo durante la settimana santa un bell’esempio di contrizione sciogliendo un cantico sacro su la passione e morte di Cristo, rispose a Monsignore che volentieri lo avrebbe soddisfatto, essendo egli credentissimo e divoto; e volle anzi dargliene un saggio lì per lì, scagliandosi con due versi d’estrosa improvvisazione contro Ponzio Pilato così sconci, che fecero subito passar la voglia a Monsignore del bell’esempio di contrizione da offrire al popolo catanese durante la settimana santa.

Tutte le dispute che si son fatte intorno alla irriverenza verso la religione, anzi all’empietà, all’ateismo del Pulci, non possono veramente non apparir vane quando si intendano a dovere lo spirito del poema, la qualità e la ragione della sua ironia e del suo riso.

Non è possibile, o è ingiustissimo, giudicare in sè e per sè esclusivamente il Morgante Maggiore, come fece ad esempio il De Santis,1 il quale credette e volle dimostrare che il Pulci, nel comporre il suo poema, non avesse vera e profonda coscienza del suo scopo; e però condannò come insufficienze del poeta la puerilità delle situazioni, la rudimentalità psicologica dei personaggi, le ripetizioni nell’ordito, ecc. ecc. Il Pulci, invece, è coscientissimo del suo scopo, e tra i due casi che pone


  1. Vedi Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, vol. I, Napoli, Morano e figlio, 1898.