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70 | parte prima |
popolo, l’epica era morta; e che all’opposto in Italia — se non l’epica, che non era possibile — il poema cavalleresco cominciò a nascere quando, con versioni in prosa o rimate, la produzione francese e franco-italiana o veneta entrò in Toscana e vi trovò il suo metro, l’ottava; e che in tutto questo movimento la materia o rimase qual’era, degradata, o per ringentilirsi si contaminò (nel senso classico della parola) e anche si sollevò fino a drammatizzarsi seriamente.
Che ci han dunque da vedere lo scetticismo del tempo, l’indifferenza, la mancanza d’ogni ideale, se anzi i nostri poeti cavallereschi tendono invece a rialzare a mano a mano, a nobilitar la materia, a rivagheggiar quasi in sogno quegli ideali, lavando del troppo sangue gli eroi e rendendoli piú umani e più gentili? Che se, anche così, poi essi non riescono bene a prenderli sul serio, non è già perchè li vedano innanzi a loro spogli di quegli ideali e non più animati dell’antico sentimento religioso, ma perchè la rappresentazione che di essi aveva fatto la poesia medievale (tranne qualche rarissima eccezione), ruvida e rozza non li poteva in alcun modo nè per alcun lato far prendere sul serio. A poeti colti e maturi, che leggono e sanno ammirare i classici, quegli eroi tutti d’un pezzo, foggiati tutti su lo stesso stampo, dovevano apparir per forza fantocci.
Eppure il popolo ancora e anche i signori prendevano gusto al racconto delle loro gesta inverosimili?
Il popolo si capisce: se ne diletta vivamente tuttora, a Napoli, a Palermo; e la materia si modifica, s’accresce, prende nutrimento e qualità dai sentimenti, dai costumi, dalle aspirazioni della gente innanzi a cui si rappresenta, assumendo una rozza forma, di cui facilmente quella si contenta. Il popolo crede; in ispecie il popolo meridionale, inculto, appassionato e ancor quasi primitivo, serba anche oggidì tutti quegli elementi