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62 | parte prima |
lo sono andato cercando a posta per far rider la gente del fatto mio; che non se ne ridon però se non gli scempi». E a Monsignor Cornaro scrive: «Ma che la natura e la fortuna mi ha fatto tale, dico, asciutto di parole e poco cerimonioso, e per ristoro intrigato in servitù». In un’altra lettera confessa: «Io, spinto dalla furia del dolore, sono ricorso al rimedio della poesia». Egli si governa, come dice in una poesia, a volte di cervello, e a Messer Agnolo Divizio scrive: «conciossiachè alla giornata io operi e faccia tutte le mie azioni. Che si cava di questo mondo finalmente altro che ’l contentarsi o almeno cercare di contentarsi?»
Ciascun faccia secondo il suo cervello
Che non siam tutti d’una fantasia.
E a Giovan Francesco Bini: «Nondimeno ancora io sono stoico come voi, e lascio correre alla ’ngiù l’acqua di questo fiume». In mezzo alla peste, allo stesso Divizio suo padrone, che andava fuggendo di qua e di là per paura, scrive: «Se ben son uomo, e come uomo tengo conto della vita, ho anche tanta grazia da Dio, che a luogo e tempo so non ne tener conto; ch’è anche cosa da uomo. Sicchè non mi dite pauroso, chè io sono piuttosto degno di esser chiamato temerario». E come uno stoico veramente fu in mezzo alla peste, ne vinse il terrore e riuscì ad acquistarne quel sentimento che vedremo esser fondamentale dell’umorismo, cioè il sentimento del contrario: l’ironia, nei due capitoli in lode della peste riesce a drammatizzarsi comicamente, e però va oltre alla facezia, oltre alla burla, oltre al comico. Nel flagello vede, come vedrà poi don Abbondio, la scopa, ma con ben altre riflessioni filosofiche.
Non fu mai malattia senza ricetta,
La natura l’ha fatte tutt’e due,
Ella imbratta le cose, ella le netta.