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50 | parte prima |
custoditi dalla guardarobiera che si chiamava Convenienza. Questa assegnava gli abiti acconci ai pensieri che si presentavano ignudi.
— Vuoi essere un Idillio, tu? un Idillietto leggiadro e pettinato? Su, fammi sentire come sospiri: Ahi lasso! Oh, bravo. Hai letto Teocrito? hai letto Mosco? hai letto Bione? e di Virgilio le Bucoliche? Sì? Eccita su, da bravo. Sei un pappagallino bene ammaestrato. Vieni qua.
Apriva la scansia, su la cui targa in cima si leggeva: Idillii, e ne traeva un grazioso abituccio di pastorello.
— E tu una Tragedia vorresti essere? Ma proprio proprio una Tragedia? È cosa ardua, bada! Devi essere a un tempo grave e lesta, cara mia. In ventiquattr’ore, tutto finito. E ferma, veh! Scegliti un luogo, e lì. Unità, unità, unità. Lo sai? Brava. Ma dimmi un po’: ti scorre sangue reale per le vene? E hai studiato Eschilo, Sofocle, Euripide? Anche il buon Seneca? Brava. Vuoi uccidere i figli come Medea? il marito come Clitennestra? la madre come Oreste? Tu vuoi uccidere un tiranno come Bruto; ho capito; vieni qua.
Così i pensieri facevan da manichini alla forma-vestiario. Cioè la forma non era propriamente forma, ma formazione: non nasceva, si faceva. E si faceva secondo norme prestabilite: si componeva esteriormente, come un oggetto. Era dunque artificio, non arte; copia, non creazione.
Ora si deve ad essa, senza dubbio, la scarsa intimità dello stile che si può notare in genere in tante opere della nostra letteratura; si deve ad essa se — per restringerci alla nostra, indagine speciale — non pochi scrittori nostri che avrebbero avuto e anzi ebbero indubbiamente, come per tante testimonianze si può arguire, una spiccatissima disposizione all’umorismo,