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distinzioni sommarie 39

d’uno sia diversa da quella d’un altro. Ma questa osservazione, ovvia, facilissima per noi, riesce invece difficilissima a uno straniero, per il quale noi tutti avremo uno stesso aspetto generale.

Pensiamo a un gran bosco dove fossero parecchie famiglie di piante: querci, aceri, faggi, platani, pini ecc. Sommariamente, a prima vista, noi distingueremo le varie famiglie dall’altezza del fusto, dalla diversa gradazione del verde, in somma dalla configurazione generale di ciascuna. Ma dobbiamo poi pensare che in ognuna di quelle famiglie non solo un albero è diverso dall’altro, un tronco dall’altro, un ramo dall’altro, una fronda dall’altra, ma che, fra tutta quella incommensurabile moltitudine di foglie, non ve ne sono due, due sole, identiche tra loro.

Ora, se si trattasse di giudicare di un’opera d’immaginazione collettiva, come sarebbe appunto un’epopea genuina, sorta viva e possente dalle leggende tradizionali primitive d’un popolo, ci potremmo in certa guisa contentare di quella sommaria distinzione. Non possiamo contentarcene più invece nel giudicar di opere che siano creazioni individuali, segnatamente poi se umoristiche.

Colto astrattamente il tipo dell’umore inglese, il Taine mette prima in un fascio Swift e Fielding e Sterne e Dickens e Thackeray e Sidney-Smith e Carlyle, e vi accozza poi Heine, Aristofane, Rabelais e Montesquieu. Bel fascio! Dall’umorismo inteso nel senso più largo, come carattere comune, tipico modo di ridere di questo o di quel popolo, saltiamo a piè pari a considerar le singole e specialissime espressioni d’un umorismo, che non è più possibile intendere in quel senso largo, se non a patto di rinunziare assolutamente alla critica: dico a quella critica che indaga e scopre tutte le singole differenze caratteristiche per cui l’espressione, e dunque l’arte, il modo