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118 parte prima

Ma era già nato prima il vero Don Quijote: era nato in Alcalà de Henáres nel 1547. Non s’era ancora riconosciuto, non s’era veduto ancor bene: aveva creduto di combattere contro i giganti e d’avere in capo l’elmo di Mambrino. Lì, nell’oscura carcere della Mancha, egli si riconosce, egli si vede finalmente; si accorge che i giganti eran molini a vento e l’elmo di Mambrino un vil piatto da barbiere. Si vede, e ride di sè stesso. Ridono tutti i suoi dolori. Ah, folle! folle! folle! Via, al rogo, tutti i libri di cavalleria!

Altro che plusvalenza futura! Leggete nello stesso prologo alla prima parte ciò che il Cervantes dice all’ozioso lettore: «Io non ho potuto contravvenire all’ordine naturale che vuole che ogni cosa generi ciò che le somiglia. E così, che cosa poteva mai generare lo sterile e mal coltivato ingegno mio, se non la storia d’un figlio rinsecchito, ingiallito e capriccioso, pieno di pensieri varii non mai finora da alcun altro immaginati; generato com’ei fu in una carcere, dove ogni angustia siede ed ha stanza ogni tristo umore?»

Ma come si spiegherebbe altrimenti la profonda amarezza che è come l’ombra seguace d’ogni passo, d’ogni atto ridicolo, d’ogni folle impresa di quel povero gentiluomo della Mancha? È il sentimento di pena che ispira l’immagine stessa nell’autore, quando, materiata com’è del dolore di lui, si vuole ridicola. E si vuole così, perchè la riflessione, frutto d’amarissima esperienza, ha suggerito all’autore il sentimento del contrario, per cui riconosce il suo torto e vuol punirsi con la derisione che gli altri faranno di lui.

Perchè Cervantes non cantò il Cid Campeador? Ma chi sa se nell’oscura e rovinosa carcere l’immagine di quest’eroe non gli s’affacciò veramente, a destargli un’angosciosa invidia!

Tra Don Quijote, che nel suo tempo volle vivere come, non già nel loro, ma fuori del tempo e fuori