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114 | parte prima |
Questo soltanto? Anche una mano gli tolse, il triste mago. Una mano, e poi la libertà.
Molti han voluto cercar la ragione per cui Miguel Cervantes de Saavedra, prode soldato, reduce di Lepanto e di Terceira, piuttosto che cantare epicamente, come alla sua natura eroica sarebbe meglio convenuto le gesta del Cid o i trionfi di Carlo V, o la stessa giornata di Lepanto o la spedizione delle Azzorre, potè concepire un tipo come il Cavaliere dalla Trista Figura e comporre un libro come il Don Quijote. E si è voluto finanche supporre che il Cervantes creasse il suo eroe per la stessa ragione per cui più tardi il nostro buon Tassoni il suo Conte di Culagna. Qualcuno, è vero, si è spinto fino a dire che la vera ragione del lavoro sta nel contrasto, costante in noi, fra le tendenze poetiche e quelle prosaiche della nostra natura, fra le illusioni della generosità e dell’eroismo e le dure esperienze della realtà. Ma questa che, se mai, vorrebbe essere una spiegazione astratta del libro, non ci dà la ragione per cui fu composto.
Scartate come inammissibili le vedute del Sismondi e del Bouterwek, tutti, o più o meno, si sono attenuti a ciò che lo stesso Cervantes dichiara nel prologo della prima parte del suo capolavoro e nella chiusa del secondo volume: che il libro cioè non ha altro fine che quello d’arrestare e di distruggere l’importanza che hanno nel mondo e presso il volgo i libri di cavalleria, e che il desiderio dell’autore altro non è stato che quello di abbandonare all’esecrazione degli uomini le false e stravaganti storie della cavalleria, le quali, colpite a morte da quella del suo vero Don Quijote, non camminano più se non traballando e hanno indubbiamente a cadere del tutto.
Ora noi ci guarderemo bene dal contraddire allo stesso autore; tanto più che è noto a tutti qual potere avessero a quei dì in Ispagna i libri di cavalleria e