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l’ironia comica nella poesia cavalleresca 113

cader nel vuoto, così che l’arguto Gran Visir di Selim potè dire ai cristiani: — «Noi vi abbiamo tagliato un braccio prendendovi l’isola di Cipro; ma voi che ci avete fatto, distruggendoci tante navi subito ricostruite? La barba, che ci è rinata il giorno dopo!» — non so capacitarmi, dicevo, che la famosa battaglia di Lepanto di cui i confederati cristiani non seppero trârre alcun profitto, non sia qualcosa come la espantable y jamas imaginada aventura de los molinos de viento.

— Questa è, — dice Don Quijote al suo fido scudiero, — questa è, Sancho, buona guerra, e gran servizio a Dio toglier tanto mal seme dalla faccia della terra!

Non vedeva dunque il turbante turco Don Quijote in capo a quei giganti, che al buon Sancho parevano molini a vento?

Forse erano, per la Spagna.

L’isola di Cipro poteva premere ai signori veneziani, una guerra contro i Turchi poteva premere a Pio V, fiero papa domenicano, nelle cui vecchie vene fremeva ancor caldo il sangue della giovinezza. Ma a que’ bei dì di primavera, quando il Torres giunse in Ispagna, inviato dal Papa a patrocinar la causa de’ Veneziani, Filippo II moveva verso i festeggiamenti sontuosi di Cordova e di Siviglia: molini a vento, le navi del Gran Visir!

Non per Don Quijote, però: dico per il Don Quijote, non della Mancha, ma di Alcalà. Eran giganti veri per lui, e con che cuore di gigante mosse incontro a loro.

Gli avvenne male, ahimè! Ma all’evidenza, come ad alcun nemico, come alla sorte ingrata, egli non volle arrendersi mai! E disse allora che le cose della guerra van soggette più delle altre a continui mutamenti: pensò, e gli parve la verità, che il tristo incantatore suo nemico, il mago Freston, colui che gli aveva tolto i libri e la casa, aveva cangiato i giganti in molini per togliergli anche il vanto della vittoria.


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