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110 | parte prima |
sato consistenza di persona viva, corpo, e lo chiamerà Don Quijote, e gli porrà in mente e gli darà per anima tutte quelle fole e lo porrà in contrasto, in urto continuo e doloroso col presente. Doloroso, perchè il poeta sentirà viva e vera entro di sè questa sua creatura e soffrirà con essa dei contrasti e degli urti.
A chi cerca contatti e somiglianze tra l’Ariosto e il Cervantes, basterà semplicemente pôr bene in chiaro in due parole le condizioni in cui fin da principio il Cervantes ha messo il suo eroe e quelle in cui s’è messo l’Ariosto. Don Quijote non finge di credere, come l’Ariosto, a quel mondo meraviglioso delle leggende cavalleresche: ci crede sul serio; lo porta, lo ha in sè quel mondo, che è la sua realtà, la sua ragion d’essere. La realtà che porta e sente in sè l’Ariosto è ben altra; e con questa realtà in sè, egli è come sperduto nella leggenda. Don Quijote, invece, che ha in sè la leggenda, è come sperduto nella realtà. Tanto è vero che, per non vaneggiar del tutto, per ritrovarsi in qualche modo, così sperduti come sono, l’uno si mette a cercar la realtà nella leggenda; l’altro, la leggenda nella realtà.
Come si vede, son due condizioni al tutto opposte.
Sì: vi dice Don Quijote, i molini a vento son molini a vento, ma sono anche giganti: non io, Don Quijote, ho scambiato per giganti i molini a vento; ma il mago Freston ha cangiato in molini a vento i giganti.
Ecco la leggenda nella realtà evidente.
Sì: vi dice l’Ariosto, Ruggiero vola su l’ippogrifo: il mago Freston, cioè la stramba immaginazione dei miei antecessori, ha cacciato dentro a questo mondo anche bestie siffatte, e bisogna ch’io ci faccia volar su il mio Ruggiero: però vi dico che ogni sera egli se ne va all’albergo e schiva a suo potere d’alloggiar male.
Ecco nella leggenda evidente la realtà.