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106 | parte prima |
— Ah sì? proprio proprio? e come va che non se ne vedono mai? — Oh Dio; ne vengono, ma rari... Quest’attenuazione, prettamente ironica, mi fa pensare a quella farsa napoletana, ove un impostore si lagna delle sue sciagure e, tra le altre, di quella del padre, che, prima di morire, penò tanto, ridotto a vivere, poveretto, non so per quanti mesi senza fegato: all’osservazione che senza fegato non si può vivere, concede che sì, ne aveva, ma poco, ecco! Così gl’ippogrifi; ne vengono; ma rari! Proprio proprio da impostore, il poeta non vuol passare. Ha l’aria di dirvi: — Signori miei, di codeste fole io non posso farne a meno; bisogna pure che c’entrino, nel mio poema; e bisogna che io, fin dove posso, mostri di crederci. — Ecco qua la gran muraglia che cinge la città d’Alcina:
... Par che la sua altezza a ciel s’aggiunga
E d’oro sia dall’alta cima a terra.
Ma come? Una muraglia di tal fatta, tutta d’oro?
Alcun dal mio parer qui si dilunga
E dice ch’ella è alchimia; e forse ch’erra,
Ed anco forse meglio di me intende:
A me par oro, poichè sì risplende.
Come ve lo deve dir meglio il poeta? Sa come voi che «non è tutt’oro, quel che luce»; ma a lui oro deve parere, «poichè sì risplende...». Per intonarsi quanto più può con quel mondo, fin da principio s’è dichiarato matto come il suo eroe. È tutto un giuoco di continui accomodamenti per stabilir l’accordo tra sè e la materia, tra le condizioni inverosimili di quel passato leggendario e le ragioni del presente. Dice:
Chi va lontan dalla sua patria, vede
Cose da quel che già credea, lontane;
Che narrandole poi, non se gli crede,
E stimato bugiardo ne rimane;