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102 | parte prima |
Il Rajna qua si compiace nel notare che «mai un barone del ciclo di Carlo Magno fu convertito così espressamente in Cavaliere Errante come in questo caso», ma non può non avvertire che «le parole degli ospiti dànno tuttavia a conoscere come lo spirito della cavalleria romanzesca sia ormai svanito» poichè sempre per i principali tra gli Erranti la modestia è uno dei primissimi doveri, tal che nulla è tanto difficile, quanto indurli a confessarsi autori di qualche opera gloriosa, e anche quando essi si provano dinanzi a migliaja di spettatori, procurano di celarsi con ignote divise; cavalcano quasi sempre sconosciuti, mutando spesso di insegne, e nascondendosi molte volte anche a gli amici più cari e più fidi.
E allora? Non dobbiamo arguire che qui ci sia un’intenzione satirica, e che anzi questa intenzione sia stata così forte nel poeta, da farlo venir meno una volta tanto alle condizioni serie dell’arte, che pure egli più di tutti suol rispettare? L’incoerenza estetica, di fatti, nella condotta di Rinaldo è lampantissima e inescusabile, il personaggio non apparisce libero, ma soggetto all’intenzione dell’autore.
Ho voluto notar questo perchè mi sembra che troppo si tenda, da qualche tempo in qua, a sforzare i termini dell’immedesimazione del poeta con la sua materia. Certo è difficilissimo vederli netti e precisi, questi termini. Ma non li vede affatto, secondo me, o ha ben poco chiaro il lume del discorso, chi, riconoscendo — com’è giusto — l’immedesimazione del poeta col suo mondo, nega l’ironia o in gran parte la esclude o gli dà poca importanza. Bisogna riconoscere l’una cosa e l’altra — l’immedesimazione e l’ironia — poichè nell’accordo, se non sempre perfetto quasi sempre però raggiunto, d’entrambe queste cose a prima vista contrarie, sta, ripeto, il segreto dello stile ariostesco.
L’immedesimazione del poeta col suo mondo consiste